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Gen 29, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su La teoria della fine dell’Universo

La teoria della fine dell’Universo

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(da http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/spazioastro/2012/07/23/universo-brandelli-16-7-miliardi-anni_7223607.html)

Per la fine dell’Universo l’appuntamento e’ fissato tra 16,7 miliardi di anni, quando ci sara’ un ‘grande strappo’ causato dall’energia oscura, ossia la forma ancora misteriosa di energia che costituisce il motore dell’espansione dell’universo e che lo occupa per il 70%. Lo affermano i fisici teorici dell’Accademia cinese delle scienze, in base ai calcoli da loro elaborati e pubblicati sulla rivista Science China: l’energia oscura portera’ l’Universo ad espandersi fino a provocare ‘strappi’ che lo ridurranno in brandelli. Rivedendo alcuni dei parametri di una delle ipotesi cosmologiche piu’ accreditate sul destino dell’Universo, il ”Big Rip” o grande strappo, i ricercatori asiatici hanno determinato che il tempo ancora a disposizione prima della ‘morte’ dell’Universo sia poco meno di 17 miliardi di anni. In una inesorabile catena di eventi, la Via Lattea si smembrera’ 32,9 milioni di anni prima della ‘fine’, mentre la Terra verra’ prima strappata via dalla sua orbita e infine, 16 minuti prima della morte dell’Universo, verra’ dissolta. Questa visione catastrofistica e’ la diretta conseguenza della recente teoria chiamata ”Big Rip” ed elaborata nel 2003, sulla base delle conoscenze attuali sull’espansione accelerata dell’Universo. E’ noto infatti a partire dagli anni ’90 che l’universo, nato dal ”Big Bang” o grande esplosione 13,7 miliardi di anni fa, sia soggetto ad un’espansione accelerata, ossia si espanda in maniera ‘forzata’, sotto la ‘spinta’ prevista inizialmente dai modelli teorici della relativita’ e oggi identificata come energia oscura, una sorta di energia del vuoto che ‘allarga’ lo spazio e che costituirebbe il 70% dell’Universo. Secondo la teoria del Big Rip, a causa dell’espansione accelerata ogni oggetto fisico, a partire dalle galassie ai pianeti e agli esseri viventi fino agli atomi, verra’ lentamente ‘stirato’; letteralmente fatto a pezzi e ridotto a singole particelle elementari che continueranno ad allontanarsi tra loro in una sorta di gas sempre meno denso, in un lento e inesorabile strappo. Analizzando alcuni dei parametri legati al destino dell’Universo, in particolare il rapporto tra pressione e densita’ della materia oscura, i ricercatori hanno sviluppato uno scenario futuro nel quale, con un livello di fiducia del 95%, il tempo ancora a disposizione per l’Universo sia al massimo 16,7 miliardi di anni.

Ultima dal mondo della scienza. A me queste cose affascinano tanto. E trovo straordinario che riescano a fare calcoli del genere, sicuramente fondati su teoremi e teorie diciamo attendibili, per quanto è più che certo che questo tipo di ricerche sono sempre esclusivamente basate su formule ipotetiche, perché per la mente umana, che diciamo è “finita”, limitata al visibile, alla conoscenza, da cui a volte dovrebbe prescindere per scoprire cose nuove altrimenti si attribuisce, sbagliando, ciò che già si conosce impedendo alla mente di far entrare il nuovo, è inconcepibile considerare quantità di tempo come quelle, la mente umana non abbraccia il troppo grande come non abbraccia il minuscolo (vedi atomo e particelle). A quei livelli, di grandezza o minuziosità smisurata, lavora più l’immaginazione che la ragione. Interessante dunque questa nuova teoria sulla fine dell’Universo. Se non fosse però un particolare: rispetto ai 16 miliardi e rotti di anni, come caspita fanno a dire che la terra finirà 16 minuti prima? Minuti. Un minuto rispetto ai miliardi di anni, è paragonabile ad un granello di sabbia nel deserto. Avessero detto 16000 anni, toh, o almeno 6000. Ma 16 minuti. Francamente questo particolare mi fa incrinare tutta la teoria 😀

Gen 28, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Alice, il piccolo principe, il viaggio del “perché” e l’ottimismo deluso.

Alice, il piccolo principe, il viaggio del “perché” e l’ottimismo deluso.

Leggendo e sentendo quanto il mondo stia sempre più naufragando nella follia, mi sono venuti in mente Alice e il piccolo principe. Non avevo mai riflettuto finora sulla complementarietà di questi due capolavori,  tra loro lontani nel tempo, eppure entrambi moderni ed universali, quanto a significato e narrazione. Tracciando un parallelismo tra i personaggi incontrati durante il viaggio dei due protagonisti, troviamo l’avaro meschino, egoista ed ignorante con manie di potenza, rappresentato dalla regina di cuori da una parte e dal re con la pretesa di dominare “tutto questo” dall’altra; il folle schizzato, impegnato in riti frenetici e logoranti ma per lui fondamentali rappresentato dal cappellaio di là, e dal lampionaio di qua; l’uomo immerso nel lavoro, che basa la propria esistenza su quello che lui definisce senso del dovere ma che in realtà è un rifugio/fuga razionale dal fermarsi per porsi domande a cui la ragione non potrà mai dare risposte, rappresentato dal Bianconiglio di là e dall’uomo d’affari di qua. Tanto per citarne alcuni. E in mezzo a tutto questo, i due protagonisti, splendidi e puri, eternamente bambini, ovvio, perché solo i bambini guardano il mondo con occhi puliti. Pur guidati entrambi dalla curiosità, la differenza tra loro sta solo nel fatto che mentre il piccolo principe è malinconico e sentimentale, nel suo viaggio alla ricerca di risposte e spiegazioni sui temi dell’amore e dell’amicizia, Alice è più un grottesco ed ironico ritratto del mondo così com’è, da lei affrontato con esemplare ingenuità nel tenero tentativo di trovare una logica dove logica non c’è, denunciando nel contempo la crudeltà, l’ipocrisia e il menefreghismo che nei secoli dei secoli infestano ed infesteranno l’umanità.  Il finale è per entrambi sintomatico: il principe ha imparato la lezione, ha capito che l’unico senso di quanto ha visto non è di questo mondo, è nell’amore per la sua rosa,  e  per raggiungerla non può che scegliere di compiere il passo estremo. Anche Alice ha imparato la lezione…. l’ha imparata tanto che da amante incondizionata del mondo dei sogni, finisce col desiderare disperatamente di risvegliarsi. Si sa, per un ottimista la curiosità è una condanna, non tanto perché non bisogna ficcare il naso nelle cose altrui, quanto perché è meglio non farlo, dato che, nel momento in cui lo ficchi, scopri magagne che sarebbe meglio lasciare sepolte, e la delusione è in agguato. E non c’è niente di peggio di un ottimista deluso: sfocia nel cinismo, rischiando di diventare un cappellaio/lampionaio matto, o, peggio, una egoista Regina di cuori/re megalomane. Come la giri la giri, fino alla fine, l’ideale resta sempre l’eterno bambino, perché, è proprio vero, “i grandi sono ben strani”.

Gen 27, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Tempo al tempo

Tempo al tempo

“Non si vive nel passato”, altra frase che ricorre spesso. E che trovo più che ovvia, visto che, tanto per fermarsi all’atto pratico, è una cosa fisicamente impossibile, nonché stesso identico motivo per cui non si può vivere il futuro. L’unico tempo che si vive è sempre il presente, che però, se ci pensiamo, paradossalmente nemmeno esiste. E’ tutto un continuo passaggio tra passato e futuro. Personalmente credo che sì, è vero che non si vive nel passato, ma è il passato a vivere con noi nel presente. Nel senso, quello che sono adesso è frutto di quello che ero e di quello che ho fatto in passato. Per me, il tempo è lineare (anzi circolare), i salti temporali sono possibili all’indietro grazie ai ricordi, e in avanti grazie all’immaginazione (e per alcuni grazie alla percezione extrasensoriale, dote rarissima). Non ci sono blocchi distinti, per cui dire “non si vive nel passato” è una sciocca ovvietà del tutto inutile da specificare. Meglio allora dire “si vive IL  passato”. I tre tempi sono collegati tra loro, come tappe su una stessa autostrada. E così come ritengo che il passato sia sempre con noi in quanto in noi stessi (anzi noi stessi addirittura), penso che il futuro lo costruiamo nel presente momento per momento. Hai voglia a dire che è tutto scritto. Se tu ad un certo punto ti fermi davanti ad un lampione e resti lì a fissarlo per giorni e giorni, rimbambimento a parte, hai diretto il tuo futuro, lo hai vissuto in quel modo lì, magari imparando ogni minimo particolare del lampione, cioè a dire, qualcosa l’hai comunque imparata, ma non più di quello. Intanto, intorno a te la vita (degli altri) continua, si muove in altre direzioni, con altre esperienze e altre occasioni che tu ti stai perdendo e che alla fine di quei giorni ti sei perso. Forse (senza forse) dire “perso” è anche sbagliato, visto che restare a fissare il lampione è stata una tua scelta, sei tu che sei rimasto così, nessuno né niente te lo ha imposto o prescritto, e magari ti piace anche, chi lo sa. Ecco perché io credo al detto “ognuno è artefice del proprio destino”. Dicono “ma ci sono eventi,  spesso tragici, che la vita ti mette davanti e quelli non li decidi tu”. Verissimo, ma per me questo dipende dal fatto che in quanto parte del tutto della natura, delle intemperie e della società, prima o poi quel movimento che scorre intorno a te mentre tu fissi il lampione, per forza di cose ti colpisce, ti trova, diciamo così, sulla sua strada, il fatto che tu sia fermo lì non vuol dire che tu ne sia fuori. A quel punto, una volta colpito, puoi decidere, ne hai libertà, come affrontare questo colpo, se ignorarlo ed incassarlo, per poi continuare a fissare il lampione – e in tal caso la tua vita prenderà la piega in base a questo – oppure reagire, magari respingendolo – in questo altro caso, la tua risposta attiva andrà a colpire altri e altro, generando una reazione a catena con conseguenze per lo più imprevedibili (“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”, principio della dinamica di Newton nonché legge del karma). Ciò che sono oggi è il frutto di quello che ero ieri, e ciò che sarò domani dipende da quello che sto facendo ora, minuto dopo minuto. Per dire, alla fine di questo post (cioè adesso) sto vivendo il futuro rispetto a quando l’ho iniziato (=il passato).

Gen 26, 2016 - Senza categoria    2 Comments

Dire o no la verità – Ambasciator…

E’ un argomento che esce spesso ultimamente, se è il caso o meno di dire la verità. Per alcuni no per altri, tra cui me, sì. Che ci sia modo, che debba esserci, questo è assodato, la brutalità non esiste mai, ma dirla secondo me è fondamentale. Mia mamma al contrario è il tipo, e come lei anche molti altri, che ritiene non sempre necessario dirla, perché molto spesso la verità fa male, sia dirla che sentirsela dire. Lei addirittura racconta sempre che, quando qualcuno in vita sua è andato a riferirle una verità scomoda, lei ha odiato lui, l’ambasciatore, per come si è sentita quando ha saputo, ha scaricato il suo stato d’animo sulla persona che non c’entrava niente. Per lei ambasciator PORTA pena, praticamente. E sostiene e ritiene che la verità può uccidere i rapporti, cosa probabilmente vera, per cui anche e soprattutto nella coppia, ad esempio, molte cose è meglio tacerle e fare di tutto per mandare avanti il rapporto. Io la penso all’opposto. La verità può distruggere ogni cosa, sì, ma mandare avanti un rapporto che è malato, in quanto amore non ce n’è più, non è una distruzione? più lenta ma sempre distruzione, e anzi in quanto più lenta, è peggio. Una verità taciuta diventa menzogna, che sarà coperta con altre menzogne. Uno stillicidio.  Ma tant’è, io tengo conto che tu la verità preferisci non saperla, per cui se so qualcosa su di te non te la riferisco, andando contro la mia stessa natura perché a me così sembra di ingannarti, ma non importa, non te la dico, aspetto che tu venga a saperlo in altro modo o che tu continui a vivere l’illusione che stai vivendo, e rispetto il tuo modo di essere. Ma voglio che tu rispetti il mio.  Voglio che tu tenga conto che io invece voglio sapere, se tu sai qualcosa che mi riguarda e anche e a maggior ragione se potrebbe distruggermi la vita, devi dirmelo, non farti pensieri del tipo “so come ti sentiresti, quanto staresti male”, no, non lo sai, starei molto peggio se scoprissi che tu lo sapevi e che non me lo hai detto, e per quanto doloroso sia dirlo sappi che non ce l’avrò mai con te per questo, al contrario tu mi libereresti da un’illusione dandomi la possibilità di cominciare o ricominciare a vivere.  Per me dire la verità è rispettare l’altro, non, come dicono alcuni, essere egoista al punto da fregarmene di ferirlo. Eh no. Se la verità è scomoda per me è durissimo dirla a qualcuno a cui tengo, che credono, è stato già durissimo il momento in cui l’ho scoperta, ma ritengo che sia un bene guardarla in faccia e non accetto assolutamente che chi non la pensa così dia del crudele a chi fa come me. Dal mio punto di vista non dirti quello che so di te è farti del male, non il contrario. E non dicendotelo rispetto il tuo modo di essere, non il mio.  Proprio mia mamma, e anche mio padre, mi ha insegnato che voler bene significa rispettare l’altro per come è, per cui se l’altro non rispetta ciò che sono significa che bene non me ne vuole, giusto? Allora, se il bene c’è, come io rispetto te non facendomi ambasciatore, tu rispetta me facendolo.

Gen 23, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su La Nemesi

La Nemesi

Nemesi (Nέμεσις, Nèmesis) è una figura della mitologia greca, secondo alcuni figlia di Zeus, secondo altri figlia di Oceano e della Notte.

I Romani avevano edificato un’ara per Nemesi sul Campidoglio, dove deponevano una spada prima di partire per la guerra.

Etimologia e significato

Nemesi viene dal greco νέμεσις (nèmesis), derivato dal verbo νέμω (nèmo, “distribuire”), dalla radice indoeuropea nem-.

La parola viene usata con il significato di “sdegno”, “indignazione”, da scrittori come Omero (Odissea) ed Aristotele (Etica Nicomachea), mentre ha il significato di “vendetta”, “castigo” per scrittori come Erodoto, Claudio Eliano (Varia historia) e Plutarco. Nella Theologumena arithmeticae di Giamblico ha il valore numerale di 5.

La parola ha il valore di “giustizia compensatrice” o “giustizia divina”. Infatti originariamente la dea greca distribuiva gioia o dolore secondo il giusto, e quindi con nemesi si intende evento, situazione negativa che segue un periodo particolarmente fortunato come atto di giustizia compensatrice distribuito dal fato. L’idea che soggiace al termine è che il mondo risponda ad una legge di armonia, per cui il bene debba essere compensato dal male in egual misura.

Nella cultura anglosassone moderna, il termine ha assunto il significato di nemico.

Come si dice che ognuno di noi ha un suo sosia nel mondo, secondo me ognuno di noi ha una sua nemesi, cioè un opposto (più che nemico), che esiste per compensazione (materia/antimateria, ordine/caos), perché la natura risponde sempre alla legge di compensazione, per mantenere sempre un equilibrio. La nemesi è l’opposto, che non combacerà mai, la sua funzione è quella di mantenere un equilibrio. Non è mica facile trovarla, la propria nemesi, eh. Nella maggior parte dei casi, con le persone con cui si ha a che fare, almeno su qualche argomento, toh, almeno uno diciamo, per quanto banale sia, si concorda sicuro. Mentre con la nemesi no, si è all’opposto su tutto, ma proprio tutto.  E io penso di aver trovato la mia. Non andiamo mai d’accordo, nemmeno quando andiamo d’accordo. Quindi deve essere per forza lei.

Gen 21, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Serate improvvisate

Serate improvvisate

L’altra sera, improvvisata di mio fratello e la compagna, i quali ci hanno proposto una serata di cena e gioco, che si è rivelata “esotica”: cena persiana, e gioco da tavolo Puerto Rico. Come saltare da un posto all’altro del globo stando comodamente seduti sul divano di casa. Parto dalla cena, che per me, difficile e scassacarote come sono, è stata una vera rivelazione. Vado sempre scettica su quello che mangio, e restia a provare sapori nuovi, ma stavolta mi dico decisamente soddisfatta di averlo fatto. Si trattava di due tipi di piatto unico, che loro hanno preso da asporto al ristorante persiano piuttosto rinomato qui a Pescara, e, a detta di tutti, molto molto buono. Due tipi di piatto unico, dicevo, entrambi a base di riso basmati (diverso dal riso solito, intanto si cuoce tipo il cous cous, aggiungendo acqua finché non viene assorbita, e poi è molto più leggero, nonché saporito, loro lo usano spesso come contorno), componente fondamentale dei piatti di quelle zone, uno condito con zucchine, funghi e pollo, buonissimo già questo, e l’altro, mio preferito nonché vera rivelazione per me, condito con fave, kebab e, udite udite, ribes, che dava al tutto un particolare gusto asprigno decisamente divino. A differenza dell’altro piatto, quest’ultimo godeva inoltre dell’aggiunta – squisita – di (credo fosse) curcuma (era giallo, e non era zafferano). Un profumo che non vi dico. Insomma, è stata una piacevole scoperta e un godibilissimo pasto, inaspettatamente. Tra l’altro, ho saputo da Paolo, che, amante della cucina com’è, non si è risparmiato di informarsi su internet in cerca di altri piatti da provare, che la cucina di questi paesi è quasi una filosofia (come in India, da quello che so), nel senso che sono molto attenti, tanto che distinguono tra cibi “caldi” e cibi “freddi”, inteso non nel senso di intensità di calore però, ma in proporzione al ph del sangue, vale a dire, tengono conto della combinazione di ingredienti  in modo da rispettare sempre il ph sanguigno permettendo al fisico di mantenere un buon equilibrio attraverso i pasti, già a partire dalla facilitazione della digestione, per dire. E in effetti il dopo cena è stato perfetto, né troppo sazi né con il senso di fame. Perfetto. Trovo questa cosa molto interessante, decisamente. Finita la cena abbiamo giocato poi a Puerto Rico, un rinomato board game strategico, nel quale ogni giocatore possiede un’isola da gestire tramite piantagioni di prodotti, esportazione e vendita delle merci, e costruzione di edifici, ognuno dei quali dà particolari vantaggi. Vince non chi ha più dobloni ma chi accumula più punti vittoria (cioè chi gioca in modo equilibrato tra le varie azioni a sua disposizione). Sono arrivata seconda 😀 Ma solo per la solita fortuna del principiante. Conto di migliorare giocandoci ancora.

Insomma, questa serata improvvisata mi è piaciuta assai. 

Gen 21, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Niente tabù, ma etica personale sì

Niente tabù, ma etica personale sì

Anni fa, nel 2005, per l’esattezza, ho avuto uno stravolgimento di visione delle cose. Spiego. Ho capito che per me non contano formalismi, anzi li detesto, non conta la forma, anzi la detesto, nè le convenzioni, che limitano soltanto e chiudono la mente e l’anima. E non è che io faccia una vita di trasgressioni, anzi, ma perchè per me tutto questo non vuol dire volere una vita trasgressiva. No, solo niente tabù, i tabù generano e alimentano solo ipocrisia. Però, voglio dire, un’etica ci vuole. Nel senso, io posso andarmene in giro rotolando per strada calpestando ciò che trovo, posso scegliere di essere quello che voglio, è poi la mia etica a permettermi di esserlo o meno. Voglio istruirmi per me stessa, per la mia persona, per rispetto verso di me innanzitutto, che si riflette poi anche sugli altri. Se non lo faccio, il danno è innanzitutto mio. Posso decidere di non farlo, nessuno impedisce niente, ma poi ne pago le conseguenze. Questo è. E’ la mia etica che mi guida, queste cose non possono essere regolate dall’esterno, non hanno regolamenti – tipo i tabù – questo si può questo non si può. Infatti spesso i regolamenti “esterni” vengono violati – es. ; qui non si fuma e c’è quello che prende e si mette a fumare – ma da chi? da chi non ha una sua etica, non ha dei valori personali che gli impediscono di violare le regole “esterne”. E chi non ha un’etica personale, violerà sempre tutto, (compresa la propria dignità, ma questi sono affarissimi suoi) considerandolo libertà, e magari nascondendolo dietro una facciata ipocrita del “l’importante è che non si risà in giro”. Eh no, tu lo sai, e questo dovrebbe bastare, nessun regolamento esterno dovrebbe dirtelo, quindi se parli così, significa che un’etica tua, una linea di comportamento tua, non ce l’hai. Un conto è non volere regolamenti dettati dall’esterno per esprimersi appunto senza tabù, senza paure di andare all’inferno, un altro è fare questo senza però avere un proprio regolamento interno. Quando è così, nessun tabù, nessun regolamento serve a niente. Il vero regolamento di comportamento è personale, ed è l’etica, cioè dire che la mia libertà finisce dove inizia la tua, e sapere che questo potrei farlo ma non voglio, perchè farlo sarebbe mancare di rispetto a ciò che credo e sento, cioè alla mia etica. La vera libertà della persona sta proprio in questa possibilità di scelta.

Gen 20, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su Ridendo e scherzando – il senso del ridicolo

Ridendo e scherzando – il senso del ridicolo

Far ridere è un’arte, ed è molto più difficile che far piangere. Ridere è troppo importante per essere considerato fuori luogo, anche se bisogna tenere conto dei diversi casi e se lo stato d’animo di chi ci circonda è in quel momento portato ad ironizzare. Ma in linea generale, ci dovrebbe sempre essere questo aspetto, tipo esercizio mentale, per riuscire a guardare le cose da un altro punto di vista e trovare la forza di affrontare momenti difficili. ironizzare per sdrammatizzarli, per dare una dimensione sopportabile, e magari strappare il sorriso. Appoggio in pieno quella teoria che sostiene di esercitarsi ogni giorno, nelle situazioni più spiacevoli, ad allargare forzatamente la bocca fino a formare un sorriso aperto, e lasciarlo sul volto per un po’. Vuoi mettere la differenza tra il dare in escandescenze o abbandonarsi al panico, e lo stamparsi un sorriso sulla bocca sfidandosi a conservarlo il più possibile. Fa bene sia a noi che a chi ci sta di fronte. Anche perché, così facendo e pure se l’atto inizia per una forzatura mentale, poi si finisce col ridere sul serio (Nota: ridere “sul serio” è una espressione contraddittoria che strappa il sorriso). La risata, si dice, è contagiosa, sentendo quindi su di noi il sorriso aperto ci infonde allegria anche dentro, e nello stesso tempo, chi ci vede  sorridere in quel modo è portato a fare altrettanto, per cui la situazione pesante che si sta vivendo assume quasi un aspetto ridicolo, e la tensione si smorza. Mi viene spesso in mente con divertimento il fatto che  mia mamma, per sfogare la rabbia (ovviamente senza spettatori per evitare di danneggiare) rompeva i piatti, e questo fino a quando, una sera, non realizzò che, nonostante la rabbia, stava scegliendo tutti i piatti già incrinati o scheggiati, una selezione quindi razionale per evitare di rompere quelli buoni. Realizzare questo, trasformò il momento di rabbia in situazione comica, lei si sentì ridicola e scoppiò a ridere, e la rabbia sbollì. Oppure pensiamo allo stereotipo molto spesso utilizzato, sempre in momenti di rabbia, vale a dire la frase “se è così faccio la valigia e me ne vado”. Faccio la valigia. Io mi immagino la persona in preda alla rabbia furiosa che prende e inizia a farsi sta valigia: intanto dov’è la valigia? Pensa a dove l’hai messa l’ultima volta (magari un anno fa e più), e minimo ti torna in mente di averla prestata a qualcuno. Quindi primo fallimento. E intanto la rabbia se ne va, ridi per forza. Poniamo pure il caso che questa valigia salta fuori. La prendi, la apri (zip zap e intanto il tempo scorre) e inizi a svuotare i cassetti (a casaccio) dei tuoi vestiti e ad infilarli, anzi a sbatterli, nella valigia, finché non realizzi che buona parte di questi sono ancora in lavatrice o nel portabiancheria. A quel punto ti viene da ridere. Ed ecco che questo “gesto emotivo simbolico” del fare la valigia diventa un mezzo per sbollire la rabbia. O un altro esempio, durante le discussioni, mi è capitato spesso di sbagliare parola (io o la controparte) o di pronunciarla male, ed è stato come un improvviso stop alla tensione, che ci ha fatto guardare la situazione come dal di fuori ridimensionandola e portandoci a riderne. E’ fondamentale in ogni occasione riuscire a trovare, anche con uno sforzo di volontà, l’aspetto ridicolo delle cose. Come fanno i caricaturisti, geniali, che accentuano i nostri difetti, che in realtà sono per noi un problema, fino a trasformarli in comicità, strappandoci così il sorriso, aiutandoci a guardarci con altri occhi e, ridendoci su, a sdrammatizzare in questo modo qualcosa per noi pesante da affrontare. Le barzellette, le freddure, i giochi di parole, come le caricature, sono tra le migliori creazioni dell’umanità.

Gen 19, 2016 - Senza categoria    Commenti disabilitati su La (in)comunicabilità

La (in)comunicabilità

Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose!
E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
•L.Pirandello-

Superfluo dire che è uno dei maggiori problemi che ci riguardano, l’incomunicabilità, che spesso crea veri e propri disastri. E Pirandello, quasi veggente, lo ha detto nel secolo scorso, non per voler constatare la effettiva condizione dell’incapacità di comprendersi, ma per sottolineare la drammaticità che caratterizza la perdita dell’individualità. La massa è un fallimento, non può che essere e rimanere un concetto ideale, perché all’interno di una massa non è poi realmente vero che siamo tutti uguali, c’è chi tende a primeggiare, chi a sottomettersi e chi a seguire il flusso tanto per non starne fuori. Il che, in un modo o nell’altro, comporta la perdita dell’individualità. Perché per formare la massa, devi dire sì anche quando pensi no, o tacere anche quando non vorresti, altrimenti vieni considerato “borderline”, fuori dal comune, anormale, non conforme, e un elemento di disturbo. Questo non può che distruggere l’individuo, che tra l’altro perde il senso di sé. Stando così le cose, come si può riuscire a comunicare? O dici quello che pensa l’altro o che l’altro si aspetta oppure sei out. Se inizi a parlare di cose che non rientrano nel pensiero generale, sei out. Il risultato, di quanto Pirandello aveva già pronosticato ai suoi tempi, è la chiusura di ogni individuo in se stesso, ciascuno nella propria bolla d’aria, che diventa sempre più spessa, rendendo impossibile la comunicazione da dentro verso fuori e da fuori verso dentro. E si arriva alla frase di Pirandello. Ognuno in ciò che dice mette proprie intenzioni, derivanti dal bagaglio personale di esperienze e ovviamente dal carattere. Sono le intenzioni che contano, e queste non vengono (quasi) mai comprese, perché chi ascolta tende a metterci di suo, ad apportare il suo bagaglio personale a ciò che sente, attribuendo spesso intenzioni sbagliate al suo interlocutore. Questo  non solo preclude l’amore, che è un uscire da sé per donarsi all’altro reciprocamente, ma rende impossibile la stessa conoscenza  vera tra le persone. Puoi dire di conoscere qualcuno se capisci bene le intenzioni con cui agisce e parla. Ma se a queste intenzioni attribuisci cose derivate da te stesso, non c’è alcuna conoscenza, che verrà anche preclusa da eventuale pregiudizio ormai radicato. L’incomunicabilità, di cui alla fine tutti si lamentano, si può superare solo grazie ad un atto di volontà, la volontà di capire chi hai davanti, cioè di ascoltarlo davvero, al di là delle tue necessità, o impellenze, o egoistiche esigenze. Ed è  questa volontà spesso a mancare del tutto, arrivando a preferire di annientare la propria individualità per uniformarsi ad una massa che non ti guarderà mai per ciò che sei davvero. Ma allora non ci si può lamentare di non essere capiti, è una condizione in cui si vuole restare, un ruolo che ci si sente costretti a recitare, imprigionati, come i sei personaggi in cerca d’autore (cioè di una identità definita ed imprescindibile). Eppure capire non è poi così difficile. Basta ascoltare.  

(UP. Dal 26/feb/2012)

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